Autori

In questa sezione potete trovare tutta la vita e la storia degli autori più importanti che hanno segnato le varie epoche.
Li troverete in ordine alfabetico, grazie e buon proseguimento.

Foscolo Ugo


FóscoloUgo. - Poeta (Zante 1778 - Turnham Green, presso Londra, 1827). Tra i massimi esponenti della letteratura italiana del neoclassicismo e del primo romanticismo, nella sua produzione si distinguono due linee letterarie principali: una di indirizzo romantico (i sonetti In morte del fratello GiovanniA ZacintoAlla sera, e il carme I Sepolcri), l'altra di indirizzo neoclassico (le odi A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All'amica risanata, e il poema incompiuto Le Grazie). Nella corrente romantica si collocano anche le Ultime lettere di Jacopo Ortis, romanzo epistolare dal carattere autobiografico; ispirata ai romanzi di J.-J. Rousseau (La nuova Eloisa) e di W. Goethe (I dolori del giovane Werther), quest'opera si può considerare il primo romanzo italiano moderno.


VITA E OPEREIl nome di battesimo era Niccolò; ma sin dal 1796 alternò le firme "Niccolò Ugo" e "Ugo". Di madre greca (Diamantina Spàthis) e di padre veneziano (Andrea), nato in un'isola greca governata daVenezia, egli riconobbe sempre in sé le due patrie, anche quando, venuta meno la libertà di Venezia, la sua seconda patria fu quella italiana. La madre, vedova, si stabilì nel 1793 a Venezia, e qui Ugo, precoce poeta e amatore (s'innamorò giovanissimo d'Isabella Teotochi Albrizzi), fu fervido propugnatore con l'azione e la poesia delle libertà proclamate dalla Rivoluzione francese (ode A Bonaparte liberatore, 1797; dello stesso anno è la rappresentazione di Tieste, tragedia di spiriti alfieriani, veementemente antitirannici). Nel 1797, deluso dal trattato di Campoformio, passò a Milano, dove conobbe G. Parini e divenne amico di V. Monti. Intensa qui l'attività di F. sia politica (1797-99), in senso ormai meno giacobino e più italiano, sia militare (dal 1799). Combatté contro gli Austro-Russi, partecipò alla difesa di Genova assediata, dove fu ferito (1800); fu poi dal 1804 al 1806 in Francia - scontento e amareggiato - ufficiale della divisione italiana che avrebbe dovuto partecipare all'invasione dell'Inghilterra progettata da Napoleone. Ma la sua intensa attività non gli impedì una complessa vita sentimentale: s'innamorò via via, in questi e negli anni successivi, di Teresa Pikler, moglie di V. Monti, di Isabella Roncioni,Antonietta Fagnani Arese (l'"amica risanata" dell'ode famosa), l'inglese Fanny Emerytt (dalla quale ebbe una figlia: Floriana), Marzia Martinengo, Maddalena Bignami, Quirina Mocenni Magiotti (la "donna gentile"), che lo confortò e soccorse durante il suo esilio. Fervido fu, sin dalla giovinezza,il lavoro da lui svolto di critico, erudito, pubblicista politico, poeta. Risalgono infatti a questi anni il commento dottissimo, anche se segretamente inteso a satireggiare la pedanteria, alla catullianaChioma di Berenice (1803), l'edizione delle Opere di Raimondo Montecuccoli (1807-08), la composizione e la pubblicazione, attraverso complicati rimaneggiamenti e travestimenti, delleUltime lettere di Jacopo Ortis (1798-1802), la raccolta in volume (1803) delle odi All'amica risanata e A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e di 12 sonetti, la pubblicazione dei Sepolcri(1807). Nominato nel 1809 professore di eloquenza a Pavia, vi pronunciò la celebre prolusioneDell'origine e dell'uffizio della letteratura, e cinque altre lezioni; ma la cattedra fu subito soppressa. F. partecipò allora, con la veemenza che gli era naturale, ad aspre polemiche letterario-politiche, di cui restano documento gli scritti satirici Ragguaglio d'un'adunanza dell'Accademia de' Pitagorici(1810), e l'Hypercalypsis, cominciata nel 1810 e pubblicata nel 1816, come opera di Didimo Chierico (v.). Rappresentata nel 1811 una seconda tragedia, Aiace, subito proibita per le sue allusioni a potenti personaggi e allo stesso Napoleone, F. lasciò Milano e dopo varie peregrinazioni si stabilì (1812) a Firenze. Qui riprese e rifece la traduzione del Viaggio sentimentale di Yorick di L. Sterne, già cominciata in Francia, e la pubblicò (1813); lavorò, secondo un proposito balenatogli forse già nel 1803, avvalendosi anche di frammenti prima composti, alle Grazie, che tuttavia non condusse a compimento. Tornato nel 1813 a Milano, si adoperò coraggiosamente in favore del pericolante Regno Italico. Gli Austriaci vittoriosi gli furono benevoli ed entrarono in rapporto con lui, pensando di affidargli la direzione di un giornale letterario; ma al punto di dover prestare, come gli altri ufficiali, giuramento di fedeltà, vi si sottrasse con l'esilio (1813), donando così all'Italia, come disse C. Cattaneo, "una nuova istituzione", cioè l'esilio volontario per amore di libertà. Fu in Svizzera sino all'anno seguente, in lotta con la miseria; poi passò a Londra (e visse ad alterni periodi nel centro della città e nei sobborghi), dove fu assai bene accolto e poté sulle prime, con i grandi guadagni che gli procuravano i suoi lavori letterarî, condurre vita agiata. Qui ebbe un ultimo, ma non corrisposto, amore per Carolina Russel (da lui celebrata col nome di Calliroe); ritrovò la figlia naturale Floriana (1822), insieme con la quale visse gli ultimi anni, tristi per miseria, per l'assillo dei creditori, per malattie. Il periodo londinese - sebbene F. lavorasse anche alle Grazie e alla traduzione dell'Iliade - fu contrassegnato letterariamente da una produzione storico-filologico-critica: lo scritto Della servitù d'Italia, iniziato in Italia e steso in massima parte in Svizzera, e la Lettera apologetica, nei quali, difendendo il proprio operato, F. indaga acutamente le ragioni della caduta del Regno Italico; la Narrazione della fortuna e della cessione di Parga, critica della politica inglese, non divulgata per ragioni di opportunità; le frammentarie Lettere scritte dall'Inghilterra, di cui fa parte ilSaggio d'un Gazzettino del Bel Mondo, gustose osservazioni di costume e di psicologia sociale; gli studî d'alta filologia Sul digamma eolicoStoria del testo di Omero; e soprattutto i saggi critici innovatori, sulla nuova scuola drammatica romantica, su Tasso, Boccaccio, Petrarca, Dante, ecc. Il poeta si spense, assistito da pochi amici, il 10 sett. 1827 e fu seppellito nel cimitero di Chiswick, donde nel 1871 le ceneri furono trasportate nella chiesa di S. Croce a Firenze.
Strettamente intrecciate si presentano le vicende personali e l'attività letteraria di F., nell'immagine di lui più divulgata e attendibile. Attraverso un autobiografismo enfatico e compiaciuto, ancorché stilizzato e ridotto ad alcuni grandi motivi, F. incarna tempestivamente l'ideale ottocentesco del poeta, incline fatalmente all'eroismo e alla trasgressione ("bello di fama e di sventura"), e, solo in questo senso, appartiene davvero alla temperie culturale del romanticismo europeo. Le opere più note illustrano con didascalica nettezza la sua prepotente personalità e alludono continuamente ai dati essenziali e emblematici della realtà vissuta, ponendo l'una e l'altra sotto il segno di una passione intollerante, quella amorosa come quella patriottica e civile. Il romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis, sul quale lo scrittore, dopo avergli affidato la testimonianza di una precisa delusione storica e esistenziale, tornò ripetutamente nel corso di un ventennio, costituisce, con la sua vena diffusamente autobiografica, il banco di prova decisivo del personaggio Foscolo. Quando si rende conto che "altamente oprar non è concesso", Ortis reagisce con il suicidio all'impossibilità di realizzare i suoi sogni d'amore e di libertà, fornendo un esemplare sbocco tragico all'intransigenza foscoliana e offrendola a un vero e proprio culto risorgimentale. Il personaggio non è più disperato o meno ragionevole del poeta che, messo alle strette, si risolve piuttosto all'esilio e ripiega naturalmente sulla creazione letteraria ("fama tentino almen libere carte"); ma l'identificazione tra lui e l'autore è appunto imperfetta, rinunciando F. alla diretta proiezione romanzesca del proprio Io, quale gli potrebbe consentire una vera autobiografia, pur di non rinunciare alle risorse della letteratura, al potere consolatorio della bellezza e alla tutela artistica, se non al controllo intellettuale sul proprio stesso incoercibile temperamento. Anziché ricorrere al canonico confronto con I dolori del giovane Werther di J. W. Goethe - che, prima ancora della traccia narrativa, aveva fornito al romanzo foscoliano la prova della duttilità di uno strumento espressivo capace di conciliare introspezione lirica e racconto - è dunque preferibile cercare nei dodici sonetti e nelle due celebri odi, unici superstiti della più vasta produzione rifiutata dall'autore, la conferma di come F. volesse rappresentare non sé stesso, ma la figura del poeta, già nelle Ultime lettere: un irriducibile campione dell'individualismo che nulla o ben poco concedesse alle concrete determinazioni individuali. Mentre persegue un idoleggiamento neoclassicistico della bellezza, sulla base di un'esperienza diretta dei capolavori della grecità, e trasforma questa illusione in un valore etico e gnoseologico, il poeta indulge volentieri ai forti chiaroscuri ("quello spirto guerrier ch'entro mi rugge") di un autoritratto di ascendenza alfieriana; e arriva a paragonarsi agli eroi del mito o a confessare un proprio privatissimo strazio ("Un dì s'io non andrò sempre fuggendo", che riecheggia un celebre componimento catulliano), sempre in funzione del mito personale che vuole stabilire e del tipo universale corrispondente. Analogamente, la fedeltà alla più recente tradizione italiana, tra Parini, Cesarotti e Monti, che gli farà dichiarare "sdegno il verso che suona e che non crea" e lo persuaderà a misurarsi nell'esercizio cruciale della traduzione omerica, non esclude la ricerca di più remote e prestigiose autorizzazioni per una poesia lungamente tentata da un sogno archeologico di emulazione con gli antichi e incontentabile nel suo sforzo di perfezione. Con il carme Dei sepolcri, indicativo di una vocazione all'eloquenza complementare e forse più spontanea rispetto alla insistita ricerca dell'eleganza neoclassica, la poesia si propone esplicitamente come supremo valore di un'umanità disillusa dalla vanità del tutto ("involve Tutte cose l'Oblio nella sua notte") e generosamente protesa alla pietosa perpetuazione ("finché il Sole Risplenderà su le sciagure umane") della "corrispondenza di amorosi sensi" e di quant'altro può sottrarsi al fato luttuoso cui soggiace, "tranne la memoria, tutto", secondo una coerente concezione materialistica. Senza tradursi in un improbabile atteggiamento estetistico, l'esaltazione dell'ideale poetico dovrebbe scongiurare d'altro canto il rischio che una ricerca letteraria molto più complessa si riduca a un protagonismo quasi romanzesco. Di tale complessità e problematicità, costituisce una proverbiale dimostrazione lo stato frammentario nel quale F. ha lasciato Le Grazie, da molti ritenute il suo capolavoro. I tre inni dell'incompiuto poema, intitolati rispettivamente a Venere, a Vesta e a Pallade, celebrano la missione civilizzatrice delle arti, unitariamente considerate, proponendosi come un'audace continuazione moderna della tradizione classica, arricchita di un nuovo mito e rivissuta come una dimensione dello spirito. Il significato allegorico che dovrebbe sostenere concettualmente il vagheggiamento della bellezza antica, e rappresentarne il potere conoscitivo, non riesce però a imporsi su di esso e a contenerne la tendenza alla dispersione, confermando F. poeta di "rade, operose Rime". Antesignano della leopardiana poesia sermoneggiante, F. sembra quasi sottrarsi ad essa, preferendo l'evidenza delle sue figure mitologiche, e al limite il silenzio poetico, al discorso più articolato e eloquente inaugurato dai Sepolcri. Basta del resto considerare l'esiguità della produzione poetica in un'opera vastissima e comprensiva di tragedie estremisticamente alfieriane, mirabili traduzioni, prose narrative romanticamente ispirate o divertenti, saggi letterarî acutissimi e accesi scritti politici (come risulta dai ventitré volumi dell'edizione nazionale, avviata nel 1933 e ora quasi conclusa, uno solo dei quali contiene Poesie e carmi), per correggere ogni interpretazione unilaterale. Una singolare tensione tra la lucida consapevolezza critica e lo slancio passionale, ribadita perfino dalla materiale scissione tra lo scrittore e il fondatore dei nostri moderni studî letterarî, conferisce a F. la sua inconfondibile fisionomia; fisionomia che qualcuno ha visto emblematicamente rappresentata nell'alternanza tra un'ispirazione ortisiana e un'ispirazione didimea, riferendosi, con quest'ultima espressione, alla produzione polemica e satirica (che lo stesso F. scherzosamente attribuiva al suo nuovo alter ego, il Didimo Chierico della Notizia che accompagnava la sua traduzione del Viaggio sentimentale di L. Sterne), e più in genere all'animosità estrosa e ironica che serpeggia perfino nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis.



Manzoni Alessandro

Nacque a Milano nel 1785; il padre, il conte Pietro Manzoni, era un anziano aristocratico; la madre, la giovane e bella Giulia Beccaria, era la figlia del celebre autore dell’opuscolo “Dei delitti e delle pene”. I genitori si separarono molto presto. Alessandro passò l’infanzia e l’adolescenza nell’ambiente chiuso e soffocante della casa paterna e dei collegi religiosi dove compì gli studi.

A vent’anni raggiunse la madre che viveva a Parigi; era appena morto Carlo Imbonati, il gentiluomo milanese con cui la madre era vissuta in quegli anni e che Manzoni considerò il proprio padre spirituale, componendo in sua memoria il “Carme in morte di Carlo Imbonati”.

Nel 1808 sposò Enrichetta Blondel, giovanissima ginevrina, mite e profondamente religiosa. Negli anni tra il 1812 e il 1822 compose i primi Inni Sacri, scrisse le due tragedie “Il conte di Carmagnola” (1819) e “Adelchi” (1821-1822). Nel 1821, a pochi mesi di distanza, compose le due odi civili, “Marzo 1821” e “Il 5 maggio”. La fama di Manzoni si era ormai consolidata, egli era ormai riconosciuto come il più grande letterato italiano del suo tempo.

Gli anni successivi furono segnati da gravi lutti familiari. Nel 1833 morì la moglie Enrichetta, e poco dopo, la diletta figlia Giulia, seguita negli anni successivi da altri figli. Nel 1837 si risposò con Teresa Borri, una donna forte ed autoritaria, tanto diversa dalla dolce Enrichetta. La serenità della vita familiare, che aveva accompagnato gli anni migliori dell’attività letteraria, si era ormai dissolta per sempre.

Morì a Milano nel 1873; i suoi funerali furono solennizzati come celebrazione del più grande letterato italiano. Nella sua lunga vita Manzoni attraversò l’età napoleonica, la Restaurazione, il Risorgimento ed i primi tempi della nuova Italia. La sua vita fu caratterizzata dai gravi lutti, in particolare la perdita della prima moglie Enrichetta. Ma il poeta seppe affrontare il dolore nel silenzio e nella solitudine della sua coscienza, portandolo ad essere anche insensibile alla gloria letteraria e schivo di ogni situazione esibizionistica. 

LE OPERE MANZIONIANE  (INNI SACRI)

All’interno degli Inni Sacri, l’Autore evidenzia l’importanza, il significato che per l’umanità ha assunto il messaggio cristiano. Il poeta si propose di celebrare le principali feste liturgiche con dodici Inni, ma ne scrisse solo cinque. I primi furono la Resurrezione, Il nome di Maria, il Natale, La Passione (1812-1815) mentre la Pentecoste risale al 1817-1822. Gli Inni Sacri sono generalmente divisi in due parti: una rievoca l’evento celebrato, l’altra lo commenta con riflessioni di carattere morale e religioso. Nei primi Inni: Dio è sentito al di sopra dell’uomo, irraggiungibile; nella Pentecoste, invece, è dentro di noi, nei nostri sentimenti, in questo modo tutti gli uomini sono uguali perché in tutti vive e opera la parola del Signore.

LE TRAGEDIE

Le tragedie manzoniane sono caratterizzate da alcune profonde innovazioni tecniche: introduzione dei “cori”, intesi come un momento di meditazione morale, politica, religiosa del poeta sui fatti che vengono descritti. Diviene fondamentale per l’ autore, all’interno delle sue tragedie, ispirarsi alla storia, alla vita reale, a temi e situazioni in cui tutti gli uomini possono identificarsi. Se lo storico cerca il “vero” cioè i fatti e le loro cause, il poeta ricercherà soprattutto il “verosimile”, cioè interpreterà le passioni, i sentimenti dei protagonisti che hanno vissuto i grandi fatti storici.

Il poeta, dopo aver presentato una veritiera cornice storica dei fatti, dovrà calarsi nell’animo dei protagonisti, ricostruendo il loro comportamento. Le due tragedie nascono da una stessa ispirazione morale e religiosa: lo sgomento dell’animo del poeta-credente che vede nella storia trionfare la violenza e l’ingiustizia e si sforza di trovare una giustificazione superiore al dolore che colpisce i buoni e gli innocenti, coloro che vivono per i più nobili e sinceri ideali terreni (l’amore, la generosità, la giustizia).

“Il Conte di Carmagnola” rappresenta la figura di un capitano di ventura del XV secolo. Francesco Bussone, detto il Carmagnola dal paese d’origine, che prima combatte per i milanesi, poi per i veneziani, conducendoli alla vittoria nella guerra contro i Visconti, signori di Milano. Durante, però, una battaglia decisiva, vinta a Maclodio nel 1427, il Carmagnola lascia in libertà i prigionieri. Il Senato di Venezia lo sospetta di tradimento e lo condanna a morte, soltanto il pensiero della giustizia divina conforterà il protagonista a sopportare l’ingiusta condanna. Il Manzoni all’interno della tragedia pone in antitesi l’atto di generosità del conte (lasciare liberi i prigionieri) con le ferree leggi della politica (i nemici devono essere distrutti, non ci si può fidare di nessuno, neanche dei propri generali vittoriosi…).

La seconda tragedia, “Adelchi”, rievoca episodi degli anni 772-774, relativi all’ultimo periodo della dominazione longobarda in Italia. Carlo Magno, re dei Franchi, ha ripudiato la propria moglie Ermengarda. Questa viene accolta a Pavia dal padre Desiderio e dal fratello Adelchi, diversissimi nell’animo: il primo pensa solo all’offesa recata a lui, re dei Longobardi, il secondo comprende il dolore della sorella e la conforta con il proprio affetto. Intanto Desiderio ha invaso le terre del Papa, rinnovando la guerra: Carlo Magno accorre in aiuto del Pontefice. I duchi longobardi si affrettano a tradire il loro sovrano, che sarà sconfitto e preso prigioniero. Adelchi ed Ermengarda, anime ricche di contrasti tra ideali e sentimenti (la pace e la gloria per il primo, l’amore ancor vivo del marito per la seconda) e la realtà che li condanna, lui alla guerra e alla sconfitta, lei all’abbandono, moriranno illuminati dalla luce rasserenante del dolore e delle sofferenze, trovando finalmente pace nella tomba.

Le tragedie manzoniane presentano due serie di personaggi: gli uni hanno il senso concreto della realtà e sono capaci di agire, sordi alle voci del cuore, gli altri invece vivono per alti e nobili ideali, comprendono le angosce e le sofferenze altrui, si tormentano incerti tra la realtà e i sogni generosi, trovando solo nella morte la piena realizzazione della loro travagliata personalità. Tra i primi sono ad esempio i senatori veneziani che condannano il Carmagnola per una dura ragione politica, senza comprendere la sua generosità; tra i secondi lo stesso Carmagnola. Allo stesso modo, nella seconda tragedia, Carlo Magno, Desiderio e i duchi longobardi agiscono solo spinti dagli interessi più bassamente egoistici, mentre Adelchi soffre il dramma delle nobili aspirazioni frustrate dall’ingiusta guerra e dalla crudele realtà, Ermengarda muore senza poter dimenticare lo sposo che l’ha ripudiata.

LE ODI

Nel 1821 probabilmente sotto l’emozione dei moti carbonari e dei grandi processi politici di Milano, Manzoni ritorna al disegno di una poesia di meditazione civile e politica, componendo  a distanza di pochi mesi le due celebri odi, “Marzo 1821” e “Il Cinque maggio”.

L’ode “Marzo 1821” fu scritta in occasione dei moti carbonari del 1821, quando sembrò che i Piemontesi passassero il Ticino per accorrere in aiuto dei Lombardi. Il poeta con la fantasia percorre gli avvenimenti e trascende l’episodio per esaltare la libertà, un dono di cui Dio stesso è garante, ma che si può conquistare solamente col personale sacrificio.

“Il Cinque Maggio” è un’ode che supera l’evento storico per collocarsi, al di sopra dei sentimenti e giudizi politici, su un piano umano e religioso: il poeta si accosta a Napoleone uomo nel dolore e nella solitudine esasperante dell’esilio. Con cristiana comprensione Manzoni intuisce nell’animo dell’esule la consolante presenza della Fede, che gli consente di sopportare l’immane sventura, offrendolo ormai in pace alla morte e all’eternità.

I PROMESSI SPOSI

Manzoni iniziò la stesura del romanzo nel 1821. Appena terminato, si accinse subito a riscriverlo, pubblicandolo poi nel 1827. Successivamente dette inizio alla lunga opera di revisione linguistica del libro, il cui linguaggio aveva troppe forme lombarde, lontane dal modello ideale di italiano che egli allora identificò con l’italiano parlato dalle classi colte di Firenze. La perfezione del romanzo è proprio dovuta a questo lungo lavoro di lima, che durò ben dodici anni. Nella prima redazione (1821-1823), detta Fermo e Lucia, meno efficaci erano appunto i nomi dei personaggi: per esempio Renzo Tramaglino e Lucia Mondella si chiamavano Fermo Spolino e Lucia Zarella, Perpetua era Vittoria e Fra Cristoforo era fra Galdino. La storia della monaca di Monza aveva uno sviluppo molto più ampio, addirittura eccessivo; don Rodrigo moriva in modo melodrammatico, lanciandosi fuori dal lazzaretto con grandi urla su un bianco cavallo, che lo riportava cadavere.

I Promessi Sposi sono un romanzo storico, secondo il modello iniziato dallo scozzese Walter Scott ed imitato dai romantici: su uno sfondo di vicende storicamente avvenute e di personaggi realmente vissuti si dipana una trama di episodi e di persone create dalla fantasia dello scrittore.

Attraverso le vicende di Renzo e Lucia sullo sfondo di guerre, soprusi e sofferenze fisiche e morali come quelle arrecate dalla calata dei Lanzichenecchi, dalla carestia e dalla peste, Manzoni vuole rappresentare l’eterna vicenda della vita, in cui prevalgono ingiustizie e dolori. Gli umili ed i semplici subiscono le angherie dei prepotenti e dei superbi, i deboli sono vittime dei violenti, i buoni devono soggiacere davanti ai malvagi. Su questa pessimistica e desolante visione si innalza però la possibilità del riscatto: di fronte al male non bisogna cedere, ma resistere e lottare, fiduciosi nell’aiuto della Provvidenza. Il dolore è una prova di benedizione celeste, sorretto dalla fede e dall’azione sa trasformare in realtà le giuste aspirazioni del cuore: Renzo e Lucia infatti potranno coronare il loro giusto e santo sogno d’amore. Lucia e padre Cristoforo sono le forme in cui l’autore più esplicitamente cala la sua concezione etico-religiosa, ossia la necessità di vivere la propria esistenza nella certezza della costanze presenza divina accanto a noi.

Il realismo manzoniano è soprattutto capacità di inquadrare e rappresentare la vita ed i sentimenti delle classi umili, sentite come espressione di un’umanità più vera e sincera anche se apparentemente ingenua ed elementare. Proprio il motivo della famiglia è al centro della tematica sociale del romanzo: la famiglia degli umili come nodo di affetti semplici e sinceri contrapposto alla famiglia dei grandi fondata sui falsi ed alienanti ideali di potenza e di affermazione mondana.

I Promessi Sposi divengono così un’opera profondamente innovatrice, introducono nella nostra letteratura che da secoli era espressione delle classi dominanti e dei loro ideali estetici e morali, l’interesse per nuovi contenuti popolari. E la vita degli umili è vista soprattutto alla luce degli ideali del Vangelo: proprio perché essi non hanno la forza di commettere violenze e soprusi.

Al centro del libro si pone quindi con sempre maggior rilievo un secolo con i suoi caratteri e le sue contraddizioni: se nei primi capitoli il romanzo è soprattutto la storia privata di un matrimonio contrastato, esso viene via via allargandosi fino a porre al suo centro la vita sociale del ‘600, il secolo “sudicio e sfarzoso”, il secolo delle apparenze e dell’esteriorità; ed il ‘600 è fatto rivivere attraverso un paziente lavoro di ricostruzione dei costumi, delle mode, degli atteggiamenti ufficiali, dei tre flagelli universali. La fame, la guerra, la peste. E se i primi due sembrano ancora ripercorrere le tracce dell’umana ingiustizia e colgono più violentemente gli umili ed i deboli, il terzo e più tremendo, la peste, sembra espressione di una volontà sovrumana nella sua implacabile ciclicità che travolge umili e potenti sotto la sua falce e lascia dietro di sé, dietro le migliaia di tragici morti.


Merini Alda


«Sono nata a Milano il 21 marzo 1931, a casa mia, in via Mangone, a Porta Genova: era una zona nuova ai tempi, di mezze persone, alcune un po’ eleganti altre no. Poi la mia casa è stata distrutta dalle bombe. Noi eravamo sotto, nel rifugio, durante un coprifuoco; siamo tornati su e non c’era più niente, solo macerie. Ho aiutato mia madre a partorire mio fratello: avevo 12 anni (…). A Vercelli ci ha ospitato una zia che aveva un altro zio contadino, ci ha accampati come meglio poteva in un cascinale (…). Non andavo a scuola, come facevo ad andarci? Andavo invece a mondare il riso, a cercare le uova per quel bambino piccolino: badavamo a lui, era tutto fermo, c’era la guerra. Stavo in casa e aiutavo la mamma, andavo all’oratorio, ero una brava ragazza io. Io sono molto cattolica (…). Pregavo da bambina, ero sempre in chiesa, sentivo sette, otto, dieci messe al giorno, mi piaceva, però non ci vado più dai tempi del manicomio. Ho trovato una tale falsità nella Chiesa allora, in manicomio vedevo le ragazze che venivano stuprate e dicevano di loro che erano matte. Stuprate anche dai preti, allora mi sono incazzata davvero (…). Sono tornata a Milano quando è finita la guerra, siamo tornati a piedi da Vercelli, solo con un fagotto, poveri in canna, e ci siamo accampati in un locale praticamente rubato, o trovato vuoto, di uno straccivendolo. E ci stavamo in cinque. Abbiamo ripescato anche mia sorella che era partita con i fascisti, con i tedeschi, aveva imparato, si metteva in strada, tirava su le gonne, i tedeschi andavano in visibilio e le regalavano il pane, si sfamava così, si alzava solo la gonna, era bellissima.
In questo stanzone stavamo tutti e cinque, accampati, con delle reti, allora sono andata con il primo che mi è capitato perché non ce la facevo più. Avevo 18 anni, dove dormivo scusate? Così poi l’ho sposato, nel 1953. Era un operaio, è morto nel 1983, un lavoratore. Si chiamava Ettore Carniti, io sono zia del sindacalista Pierre Carniti e anche mio marito era sindacalista. Un bell’uomo. Ho avuto quattro figlie da lui (…). Poi abbiamo preso una panetteria in via Lipari, non è che proprio facevamo il pane, era solo una rivenditoria. Mi chiamavano la fornaretta. Ho avuto la mia prima bambina nel 1955, Emanuela, poi nel 1958 è nata anche Flavia. Avevo 36 anni quando è nata la mia ultima figlia, Simona, e prima ancora era arrivata Barbara» (a Cristiana Ceci).
• Studi professionali all’istituto Solera Mantegazza (dovette lasciare il liceo Manzoni «per colpa dei logaritmi»), fu scoperta a 16 anni da Giacinto Spagnoletti, che fu il primo a pubblicarla (Il gobbo, Luce). Nel 1947 fu internata per un mese nel manicomio di Villa Turro, a Milano. Nel 1951 l’editore Scheiwiller stampò, su suggerimento di Eugenio Montale, alcune sue poesie, poi pubblicò La presenza di Orfeo, Paura di Dio, Nozze Romane. Nel 1965 iniziò il periodo degli internamenti al Paolo Pini, nel 1972 tornò a scrivere sull’esperienza del manicomio (La Terra Santa). Morto nell’83 Ettore Carniti, si unì al poeta Michele Pierri e si trasferì a Taranto per tre anni. Fra le sue opere: La gazza ladra,L’altra verità, Diario di una diversa, Fogli bianchi, Testamento,Delirio amoroso, Vuoto d’amore, Aforismi, La pazza della porta accanto, La vita facile.
• «Mio padre lavorava nella vecchia mutua Grandici e faceva l’assicuratore. Era un uomo coltissimo e padrone della lingua italiana. E anche molto bello, talmente bello che lui e mia madre sembravano una coppia di attori. Era anche un tenore di grazia. Cantava nelle operette e io già da bambina ebbi una grande dimestichezza col palcoscenico. Erano talmente innamorati l’uno dell’altra, i miei genitori, che io crebbi in un clima di amore e di musica unico al mondo. Lui era bello come Robert Taylor, ma era un uomo chiuso e molto garbato. Fu un grande educatore, mio padre. Amò i suoi figli teneramente e aveva mani così ben curate che sembravano persino femminili. Mio nonno era maestro d’organo e in casa mia non ci furono mai né parolacce né offese, e mio padre aveva un tale rispetto per sua moglie che per tutta la vita io credetti che il matrimonio fosse la vera felicità. Mio padre si chiamava Nemo, perché mio nonno era un appassionato lettore di Giulio Verne. Mio padre, che non era cattolico, sposò mia madre solo quando nacqui io, per intervento di un nostro cugino che voleva santificare quell’unione così perfetta (ma io avevo il diavolo in corpo e non volevo santificarmi). Solo mio padre, così paziente e generoso, riusciva a calmarmi, e a lui confidavo tutto, anche i miei baci, i miei primi baci».
• «Oltre che poeta di meravigliosa intensità, è una donna che si è lasciata alle spalle (ma fino a che punto?) una sofferenza enorme: quella del manicomio. Vi è stata reclusa per una decina d’anni a partire dal 1965, ma, miracolosamente, in quella succursale dell’inferno è riuscita a preservare la nobiltà dell’intelletto con la sola forza della parola poetica» (Osvaldo Guerrieri).
• «Diceva Raboni: “Il poeta è l’interprete delle inquietudini”, non solo delle proprie ma di quelle del mondo. Noi siamo antenne: alle prime avvisaglie, quando le nubi ancora si addensano sull’umanità, avvertiamo la tempesta e facciamo da ripetitori per gli altri uomini. Sentiamo più forti i dissesti, gli odi, captiamo le voci delle moltitudini che ci richiamano, ma tutto ciò devasta alla fine il poeta» (da un’intervista di Lucia Bellaspiga).
• «Si è fatta ritrarre a seno nudo da Giuliano Grittini per Canto di spine degli Altera, una band prodotta da Franz Di Cioccio della Pfm. Non è nuova a queste provocazioni: sempre lo stesso fotografo, un suo amico, l’aveva ritratta senza veli per illustrareL’altra verità. Diario di una diversa, riedizione del 1997 di una sua raccolta di poesie. Allora spiegò così la sua decisione: “Per buttare il mio corpo al macero, a significare che per la psichiatria il corpo non vale, viene annientato, soltanto la mente è terreno di studio”» (Corriere della Sera).
• «Quando qualcuno mi dice “poveretta”, magari per consolarmi, non sa che anche in manicomio si può fare esperienza della vita. Ho imparato molto, in quegli anni. Anche gli elettroshock (e ne ho subiti molti - 46 in quindici anni, raccontò in un’intervista - ndr ) mi sono serviti. L’abbandono è la morte, ma anche la perdita dei condizionamenti. A me non importa più nulla delle convenzioni. Vivo per quel che sono».
• «Scrivo quando non ho più soldi. Allora scrivo anche su committenza: per un matrimonio o un funerale».
• Fondamentale la sua storia con Manganelli: «Quando lo violentai, lui rimase senza parole... per mesi e mesi, finché si decise a prendere in mano la penna. Fui io che feci di Manganelli un grande scrittore» (questo a 16 anni, lei era una poetessa già apprezzata, lui aveva venticinque anni ed era sposato con un figlio - ndr).
• Maria Corti: «Ogni sabato pomeriggio lei e Manganelli salivano le lunghe scale senza ascensore del mio pied-à-terre in via Sardegna e io li guardavo dalla tromba della scala: solo Dio poteva sapere che cosa sarebbe stato di loro. Manganelli più di ogni altro la aiutava a raggiungere coscienza di sé, a giocarsi bene il destino della scrittura al di là delle ombre di Turro» (introduzione a Vuoto d’amore della Merini).
• Tommy Cappellini: «Alla fine del 1953 qualcosa si ruppe irreparabilmente tra la Merini e Manganelli. Questi non riusciva, stando alle parole scritte da Alda, a ottenere un divorzio consensuale dalla moglie. Fuggì allora su una Lambretta alla volta di Roma. Ma si trattò di fuga? Il racconto della figlia di Manganelli, Lietta, è più verosimile: suo padre e sua madre vivevano a Milano in una casa di dieci stanze, perfetta per chi non poteva soffrirsi. Un giorno Giorgio arriva a casa, trova delle valigie pronte e dice alla consorte: “Oh che bello, viene a trovarci tua madre?”. “No, sei tu che te ne vai”». Manganelli: «Preso da un’incompatibilità affettiva con il grigiore di Milano, mi sono autodeportato a Roma».
• Nel 2004 sue poesie messe in musica da Giovanni Nuti furono cantate da Milva in uno spettacolo al Teatro Strehler, ripreso successivamente. Se ne fece anche un album, Sono nata il 21 a primavera. Musicato sempre da Nuti, il suo Poema della Crocevenne proposto nel Duomo di Milano. Avrebbe voluto partecipare in prima persona al Festival di Sanremo 2007, ma la commissione artistica guidata da Pippo Baudo la escluse. Diede poi dello stupido a Simone Cristicchi, che vinse quella edizione con Ti regalerò una rosa, perché parlava «di manicomi, un mondo che non conosce». Le incomprensioni si risolsero con l’albumRasoi di seta (testi suoi, musica di Nuti) in cui Cristicchi è ospite. Tra le canzoni anche Sull’orlo della grandezza, che avrebbe dovuto portare a Sanremo. Spiegò che non ce l’aveva con Baudo: «Mi ha aiutata tanto, mi ha pagato una bolletta del telefono di 6 milioni di lire, non posso volergli male».
• «La Merini è ormai un’icona pop e tale resterà fino alla morte: viene invitata nei salotti televisivi, collabora con cantanti e musicisti, inchiodata dai mezzi di comunicazione al tipo del poeta folle, secondo un cliché limitativo ed equivoco. Lei un po’ accetta, un po’ subisce: è amata dal pubblico, invidiata da certi colleghi, sfruttata da chi vuol farne soprattutto un caso» (Daniele Piccini) [Cds 31/1/2012]
• Nel settembre 2007 telefonò a un amico minacciando di farsi esplodere con il gas e l’Aem le staccò la fornitura per tre mesi. Parlò di un malinteso: «Sono troppo vigliacca per uccidermi. Eppoi io sono una poetessa».
• Nell’ottobre 2007 l’Università di Messina le conferì la laurea magistrale honoris causa in Teorie della comunicazione e dei linguaggi. Si rammaricò che non fosse arrivata dalla sua città. In novembre fu ricoverata al Policlinico per una ischemia coronarica.
• Viveva a Milano, casa sui Navigli. «Milano non l’amo più come una volta. È una città disorientata. Volevo venire qui con un bel paltò, mi mancavano 100 euro per riuscire a comprarlo e me lo hanno negato. Ecco, questa è Milano. Sono stufa, presidente. Lei mi può aiutare» (a Roberto Formigoni alla consegna della Rosa Camuna 2006).
• «Fuma 70 o 80 sigarette al giorno (buttandone i mozziconi, senza spegnerli, sul parquet della sua minuscola casa)» (Dario Cresto-Dina). «Quando mi dicono che la mia casa è in disordine, e lo è (la sovraccarico di roba), non immaginano che ho provato il peggio e quindi me ne strafrego dell’ordine e del disordine. L’essenziale è avere un tetto».
• «Nostra madre si è spenta il 1° novembre 2009 all’ospedale San Paolo di Milano, in seguito ad un tumore, fumando le sue amatissime ed inseparabili sigarette, una dietro l’altra fino all’ultimo, incurante dei divieti» (le figlie sul sito aldamerini.it).
• «Gli anziani dovrebbero poter morire a casa loro. L’ospizio è un manicomio».
• «Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio. L’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita è spesso un inferno…per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara».
• Non le piacevano i comunisti.



Negri Ada



Ada Negri nasce a Lodi il 3 febbraio del 1870 da Giuseppe e Vittoria Cornalba. Il parto avviene nella casa della nonna materna, la portineria di un palazzo signorile in via Porta Cremonese dove quest’ultima svolgeva il ruolo di custode. Il padre di Ada fa il vetturino a Milano, dove la famiglia risiede, ma è vittima del vizio di bere e muore quando lei ha appena compiuto un anno. Rimasta vedova, Vittoria si trasferisce definitivamente dalla madre con i due figli, il primogenito Annibale, che verrà adottato dallo zio materno, e la piccola Ada. Trova lavoro in una filanda e con grandi sacrifici riesce a mantenere la figlia a scuola fino al diploma, ottenuto nel 1887 con il massimo dei voti. Nel 1888 Ada ottiene un posto di insegnante a Motta Visconti e inizia a scrivere le prime poesie che vengono pubblicate da L’Illustrazione italiana. Nel 1892 l’editore Treves accetta di pubblicare il suo primo libro, Fatalità, che ottiene un certo successo, tanto che il ministro Zanardelli firma un decreto con il quale la abilita ad insegnare in una scuola superiore di Milano. Tre anni dopo, sempre con l’editore Treves, pubblica Tempeste, che viene tradotto in francese e in tedesco. Intanto conosce Giovanni Garlanda, che sposa e con il quale inizia a condurre una vita agiata. Nel 1898 nasce la figlia Bianca, due anni dopo una seconda bambina che sopravvive soltanto un mese. A Milano, dove la famiglia si trasferisce, Ada frequenta gli amici dell’ambiente letterario e ciò provoca l’irritazione del marito che non approva le sue scelte. I contrasti si fanno sempre più frequenti e infine, nel 1913, i due si separano. Dopo la morte della madre e il matrimonio della figlia, Ada Negri vive una stagione di solitudine ma di grande prolificità artistica e di riconoscimenti pubblici: pubblica due volumi di poesia e tre di prosa, le viene conferito il premio Mussolini, che riceve in Campidoglio alla presenza dei sovrani Vittorio Emanuele III e della regina Elena del Montenegro, e infine, nel 1940, ottiene, prima donna, il titolo di Accademica d’Italia. Muore la notte fra il 10 e l’11 gennaio del 1945 fra le braccia della figlia.
INTIMISMO E SOCIALITA’ NELLA POESIA DI ADA NEGRI
Nella Storia della Letteratura Italiana del primo Novecento Giacinto Spagnoletti riassume in quindici righe la vicenda letteraria di Ada Negri. Invero, anche se la sua opera è oggi quasi caduta nel dimenticatoio, non possiamo ignorare che la sua vicenda letteraria toccò le corde della sensibilità del tempo ed ebbe benevola accoglienza sia negli ambienti accademici che nel pubblico meno avvertito. Fu apprezzata da Mussolini, da Carducci, dalle principesse di Casa Savoia; collaborò con Margherita Sarfatti e con Anna Kuliscioff nel periodo in cui fu in contatto con i membri del Partito Socialista Italiano. La sua figura segnò in una qualche modo la scena letteraria italiana ponendo all’attenzione la scrittura femminile.
Il nucleo sociale dentro al quale si muovono la sua infanzia e la sua prima giovinezza è quello del proletariato. Da questo mondo di umili lavoratori la Negri riesce ad evadere prima attraverso lo studio e l’insegnamento e in seguito contraendo matrimonio con un piccolo industriale tessile. Ma nonostante il desiderio di revanche sociale, l’estrazione operaia resta in lei un punto fermo. Ed infatti la sua prima raccolta di poesie, Fatalità, pone l’accento sul tema della condizione operaia e della sofferenza che ne deriva. L’impronta di istanza sociale e umanitaria caratterizza la sua posizione, ma l’anelito soffuso nella sua poesia non si rivela elemento di forza atto a sostenere una lotta contro la borghesia, assume piuttosto valore di religione: l’ottica della poetessa vede il proletariato segnato da una necessaria “sventura”, che lo distanzia dalla borghesia e nella quale si configura la sofferenza dello strato operaio che guadagna statura proprio in virtù dell’impossibilità a vincere questo squilibrio. In questo senso le poesie di Fatalità lasciano trasparire una sottile vena di astio, un desiderio di orgoglioso riscatto attraverso la scrittura che le fa scrivere: Io non ho nome. – Io son la rozza figlia / dell’umida stamberga; / plebe triste e dannata è la mia famiglia, / ma un’indomita fiamma in me s’alberga.
Se sotto il profilo della realizzazione femminile la posizione della Negri rivela un atteggiamento di immobilismo, interessante è invece il tentativo di scardinare i vecchi schemi che relegavano la donna ad un ruolo esclusivamente familiare, precludendole l’area dell’interesse sociale. In questa prospettiva la poetessa incunea la propria volontà di esprimersi come universo donna.
La sua produzione successiva si organizzerà attorno a nuclei diversi e si accentrerà soprattutto sulla propria essenza femminile di cui metterà in evidenza il fremito che ne sommuove le forze. In lei scatterà una forma di esaltazione per la propria condizione di donna che, oltrepassate le leggi delle ipocrite convenzioni, riscatta il proprio ruolo seguendo gli istinti dell’anima. Spezzato il vincolo matrimoniale e risolto il compito della maternità, la poetessa interrompe la parabola moglie-madre e si avvia ad esprimere il senso cosmico del rapporto uomo-donna. Il gesto di rottura reca uno scotto doloroso che l’anima percepisce e paga, ma il bisogno di sincerità attutisce l’attrito. La donna avverte le tempeste che da sotterranei strati smuovono l’aspirazione alla necessità vitale di esprimere se stessa. I temi intimistici racchiudono il sentimento di un rapporto panico con le cose e con l’universo, l’Essere coglie la stretta colleganza che intercorre fra la propria interiorità ed il Cosmo. Il registro passionale e il taglio risentito, fino a quel punto poco esercitato dalla scrittura femminile, danno alla sua produzione un risvolto di novità rispetto alle poetesse coeve. Pur immersa in un momento letterario impregnato dell’estetica dannunziana e legata ad una certa forma di esaltazione romantica, Ada Negri afferma la presenza di un mondo femminile che emerge sulla limitazione alla piena realizzazione di sè.
In una pagina di critica pubblicata in Poesia, Guido Piovene scrisse di Ada Negri: “La sua attività letteraria ebbe tre fasi: una arruffata, così detta rivoluzionaria, della sua giovinezza; una intermedia, passionale senza essere più sociale; l’ultima, meditativa, nella quale raggiunse decoro e dignità di scrittrice.
OPERE
Fatalità, liriche , Milano, Treves,1892
Tempeste, liriche, Milano, Treves, 1895
Maternità, liriche, Milano, Treves, 1904
Dal profondo, liriche ,Milano, Treves, 1910
Esilio, liriche, Milano, Treves, 1914
Le solitarie, novelle,Milano Treves, 1917
Orazioni, Milano, Treves, 1918
Il libro di Mara, liriche, Milano, Treves, 1919
Stella mattutina, romanzo autobiografico,Milano, Mondadori, 1921
Finestre alte, novelle, Milano, Mondadori,1923
I canti dell’isola, liriche, Milano, Mondadori,1925
Le strade, prose varie, Milano, Mondadori, 1926
Le sorelle, novelle, Milano, Mondadori, 1929
Vespertina, liriche, Milano, Mondadori, 1931
Di giorno in giorno, prose varie, Milano, Mondadori, 1932
Il dono, liriche , Milano, Mondadori ,1936
Erba sul sagrato, prose varie, Milano, Mondadori , 1939
Fons amoris, liriche (postumo), Milano, Mondadori, 1946
Oltre, prose novelle (postumo) ,Milano, Mondadori, 1947
Le cartoline della nonna, postumo, Firenze, Giunti-Nardini, 1973
Nella collana Mondadoriana “I classici contemporanei italiani” sono uscite, in un unico volume, tutte le poesie a cura della figlia della poetessa, Bianca Scalfi, e di Egidio Bianchetti, (1^ edizione 1948, 2^ edizione 1956). Presso la stessa casa editrice, sono state pubblicate, pure in un solo volume ed a cura dei medesimi revisori, tutte le prose ( 1954).
POESIE
Sfida (dalla raccolta “Fatalità”)
O grasso mondo di borghesi astuti di calcoli nudrito e di polpette,
mondo di milionari ben pasciuti e di bimbe civette;
o mondo di clorotiche donnine che vanno a messa per guardar
l’amante, o mondo d’adulterii e di rapine e di speranze infrante;
e sei tu dunque, tu, mondo bugiardo, che vuoi celarmi il sol
degl’ideali, e sei tu dunque, tu, pigmeo codardo, che vuoi tapparmi l’ali?…
Tu strisci, io volo; tu sbadigli, io canto: tu menti e pungi e mordi, io ti
disprezzo: dell’estro arride a me l’aurato incanto, tu affondi nel lezzo.
O grasso mondo d’oche e serpenti, mondo vigliacco, che tu sia
dannato! Fiso lo sguardo negli astri fulgenti, io movo contro al fato:
sitibonda di luce, inerme e sola, movo -e più tu resti, scettico e
gretto, più d’amor la fatidica parola mi prorompe dal petto!…
va, grasso mondo, va per l’aer perso di prostitute e di denari in
traccia: io, con la frusta del bollente verso, ti sferzo in su la faccia.
IL DONO
Il dono eccelso che di giorno in giorno
e d’anno in anno da te attesi, o vita,
(e per esso, lo sai, mi fu dolcezza
anche il pianto) non venne: ancor non venne.
Ad ogni alba che spunta io dico: – E’ oggi: -
ad ogni giorno che tramonta io dico:
- Sarà domani.- Scorre intanto il fiume
del mio sangue vermiglio alla sua foce:
e forse il dono che puoi darmi, il solo
che valga, o vita, è questo sangue: questo
fluir segreto nelle vene, e battere
dei polsi, e luce aver dagli occhi; e amarti
unicamente perché sei la vita
FINE
La rosa bianca, sola in una coppa
di vetro, nel silenzio si di sfoglia
e non sa di morire e anch’io la guardo
morire. Un dopo l’altro si distaccano
i petali; ma intatti: immacolati:
un presso l’altro con un tocco lieve
posano, e stanno: attenti, se un prodigio
li risollevi e li ridoni, ancora
vivi, candidi ancora, al gambo spoglio.
Tal mi sento cader sul cuore i giorni
del mio tempo fugace: intatti; e il cuore
vorrebbe, ma non può, comporli in una
rosa novella, su più alto stelo.
LA STIRPE
In questo giorno e in questo mese, nella
stagion mia piena, figlia, a me venisti
com’io, molt’anni innanzi, alla mia madre.
E se m’affondo nelle lontananze
del tempo, ascolto le scomparse donne
del ceppo nostro gemere al travaglio
dei parti, sempre con lo stesso grido
di carne: odo vagir le creature
create, sempre con lo stesso pianto.
E d’anello in anello si rannoda
fra l’ombre del passato la catena
dell’esistenze; e tu già cerchi il segno
del futuro nel riso adolescente
di Donata occhi d’ambra e nella ferma
fronte di Giudo occhi di smalto nero.
Vive eravamo entro l’inconscie forze
di colei che fu prima nella nostra
solida stirpe: vive pur saremo
nell’ultima, sin ch’ella avrà respiro.
Il nostro esister breve, in questa forma
ch’è tua, ch’è mia, che sparirà, non vale
se non pel filo che ne allaccia a vite
già conchiuse, ed a quelle che il domani
succedersi vedrà, l’una dall’altra
generate. O mia sola, o tante e tante
mie creature! O discendenza, giorno
senza tramonto! Così volge un fiume
con l’onde sue sempre le stesse, sempre
novelle, in corso ampio e perenne, al mare
IMPOSSIBILITA’
Un gemere di bimbo, nella notte.
Lungo, flebile, stanco. Donde venga
non so. Ma soffro: inutilmente soffro
di non sapere: di non poter nulla
per quel bimbo che piange. A che siam vivi,
se di tanto dolor che ne circonda
sì lieve parte, e sol quella che gli occhi
vedon, le mani toccano, ci è dato
consolare? Lamento senza viso
che giunge a me, ferendo l’ombra: quanti
che non udii, che non udrò, per tutta
la terra, ovunque sia carne che nasce,
che tribola, che muore -ovunque sia
cuore che duole, lagrima che sgorga,
uom contro uomo, sangue contro sangue.
Così diverso, delle umane stirpi
il costume, il linguaggio; e pur lo stesso
lagno trema sul labbro a ciascun bimbo
che lo stesso travaglio offre la vita:
l’uguale estremo rantolo s’agghiaccia
entro la gola di ciascun che spira.
Oh, per la vita e per la morte, pena
de’ miei fratelli, perché mai non posso
tutta affrontarti, tutta penetrarti,
tutta lenirti? Se ad amor sì vasto
l’anima è pronta, perché mai sì breve
il mio passaggio in terra, e sordo il muro
che m’imprigiona?
O sconosciuto, ignaro
del dolor che mi dai: questo mio male
ch’è più intenso del tuo, questo soffrire
umile e vano innanzi a te m’assolve
Fiorita di Marzo
La fioritura vostra è troppo breve,
o rosei peschi, o gracili albicocchi
nudi sotto i bei petali di neve.
Troppo rapido il passo con cui tocchi
il suolo, e al tuo passar l’erba germoglia,
o Primavera, o gioia de’ miei occhi.
Mentre io contemplo, ferma sulla soglia
dell’orto, il pio miracolo dei fiori
sbocciati sulle rame senza foglia,
essi, ne’ loro tenui colori,
tremano già del vento alla carezza,
volan per l’aria densa di languori;
e se ne va così la tua bellezza,
come una nube, e come un sogno muori,
o fiorita di Marzo, o Giovinezza…

Palazzeschi Aldo

Poeta e scrittore, Aldo Giurlani (che assunse poi il cognome della nonna materna Palazzeschi), nasce a Firenze nel 1885 da una media famiglia borghese specialista nel commercio delle stoffe. Seguiti studi di ordine tecnico, si diplomò in ragioneria nel 1902. Contemporaneamente, essendo molto forte in lui la passione per il teatro, iniziò a frequentare la scuola di recitazione "Tommaso Salvini", diretta da Luigi Rasi, dove ebbe modo di far amicizia con Marino Moretti. Successivamente passò a lavorare con la compagnia di Virgilio Talli, con la quale debuttò nel 1906.
Scrittore dal temperamento focoso e ribelle, diventa ben presto un provocatore di professione, non solo perché esercita originalissime forme di scrittura ma anche perché propone una lettura della realtà molto particolare, rovesciata rispetto al modo di pensare comune. Esordisce come poeta nel 1905 con il libretto di versi "I cavalli bianchi". Nel 1909, dopo la pubblicazione della terza raccolta di versi, "Poemi", che gli procurò fra l'altro l'amicizia di Marinetti, aderì al Futurismo (di cui Marinetti era appunto il deus-ex-machina) e, nel 1913, iniziò le sue collaborazioni a "Lacerba", la storica rivista di quella corrente letteraria.
Dei futuristi ammira la lotta contro le convenzioni, contro il passato recente intriso di fumoserie, gli atteggiamenti di palese provocazione tipici del gruppo, le forme espressive che prevedono la "distruzione" della sintassi, dei tempi e dei verbi (per non parlare della punteggiatura) e propongono "le parole in libertà".
Quello con i Futuristi è un sodalizio che viene così descritto e commentato dal poeta: "E senza conoscerci, senza sapere l'uno dell'altro, tutti quelli che da alcuni anni in Italia praticavano il verso libero, nel 1909 si trovarono raccolti intorno a quella bandiera; per modo che è col tanto deprecato, vilipeso e osteggiato verso libero, che agli albori del secolo si inizia la lirica del 900".
Dalle Edizioni Futuriste di "Poesia" esce nel 1911 uno dei capolavori di Palazzeschi, "Il Codice di Perelà", sottotitolato Romanzo futurista e dedicato "al pubblico! quel pubblico che ci ricopre di fischi, di frutti e di verdure, noi lo ricopriremo di deliziose opere d'arte".
Considerato da numerosi critici uno dei capolavori della narrativa italiana del Novecento, precursore della forma "antiromanzo", il libro è stato letto come una "favola" che intreccia elementi allusivi a significati allegorici. Perelà è un simbolo, una grande metafora dello svuotamento di senso, della disintegrazione del reale.
Dopo un così clamoroso idillio, ruppe però con il Futurismo nel 1914, quando la sua personalità indipendente e la sua posizione pacifista entrarono in rotta di collisione con la campagna per l'intervento in guerra dei Futuristi, evento che lo porta anche a riavvicinarsi a forme più tradizionali di scrittura di cui ne è esempio il romanzo "Le sorelle Materassi" (altro capolavoro assoluto).
Dopo l'esperienza della prima guerra mondiale, durante la quale riuscì ad evitare di essere mandato al fronte (ma prestò servizio come soldato del genio), mantenne un atteggiamento distanziato ed attendista di fronte al regime fascista e alla sua ideologia di "ritorno all'ordine". Condusse da quel momento in poi vita molto appartata, intensificando la sua produzione narrativa e collaborando, dal 1926 in poi, al "Corriere della sera".
Negli anni sessanta si sviluppa comunque il terzo periodo dell'attività letteraria del nostro autore che lo vede nuovamente interessato alle sperimentazioni giovanili.
La contestazione giovanile lo coglie ormai anziano e, considerato da più parti una sorta di "classico" rimasto in vita, prende con poca serietà e con ironico distacco gli allori che i poeti della neoavanguardia innalzano di fronte al suo nome, riconoscendolo come precursore . Fra le sue ultime opere miracolosamente uscite dalla sua penna all'alba degli ottant'anni troviamo "Il buffo integrale" (1966) in cui lo stesso Italo Calvino riconobbe un modello per la propria scrittura, la favola surreale "Stefanino" (1969), il "Doge" (1967) e il romanzo "Storia di un'amicizia" (1971). Muore il 17 agosto 1974, all'Ospedale Fatebenefratelli sull'Isola Tiberina.
In sintesi, la sua opera è stata definita, da alcuni dei maggiori critici del Novecento come una "Favola surreale e allegorica". Palazzeschi, insomma, è stato un protagonista delle avanguardie del primo Novecento, un narratore e poeta d'eccezionale originalità, dalla multiforme attività letteraria, di alto livello anche in rapporto con gli sviluppi della cultura europea di quel periodo.


Pascoli Giovanni

Pàscoli  Giovanni.  Poeta (San Mauro, od. San Mauro P., 1855- Bologna 1912). Con la sua ricerca linguistica audacemente sperimentale, P. aprì la strada alla rivoluzione poetica del Novecento. Con la raccolta Myricae, la poesia italiana sembra scrollarsi di dosso le incrostazioni della tradizione per far riemergere le cose, la natura, fino ai più umili animali e alle più piccole piante, come se fossero stati appena scoperti dall'occhio umano. La metrica, la musica stessa del verso appare più libera, piena di echi e di rinvii che si prolungano nell'animo del lettore. I colori, gli odori e i suoni si mescolano per creare paesaggi e atmosfere che assumono un potere incantatorio, quasi ipnotico. In una prosa del 1897, Il fanciullino, P. definiva il suo modo di intendere e di fare poesia: il segreto era di affidarsi a uno sguardo nuovo come quello di un bambino che riscopre la realtà, ovvero ricrea il mondo liberandolo dalla patina delle abitudini. Quello sguardo è la poesia stessa dotata di sensi più sottili e audaci in grado di accedere al mistero che circonda la realtà e al dolore che minaccia anche le forme più splendenti.
VITA. Quarto dei numerosi figli di Ruggero e di Caterina Vincenzi Alloccatelli Vincenzi. Dal padre, Ruggiero, amministratore della tenuta La Torre dei principi Torlonia, lungo il Rio Salto, fu mandato a studiare, dopo la prima elementare, a Urbino, nel collegio Raffaello, tenuto dagli Scolopi. Qui egli si trovava con i fratelli Luigi e Giacomo, più grandi di lui, e Raffaele, quando lo raggiunse la notizia della morte del padre, ucciso in un agguato il 10 agosto 1867, mentre tornava in calesse da Cesena, dove si era recato per affari. L'assassino restò impunito, anche se non mancarono i sospetti, a lungo coltivati da Pascoli. L'anno dopo morirono la sorella maggiore, Margherita, e la madre, seguite dai fratelli Luigi (1871) e Giacomo (1876). Dal 1873, vinta una borsa di studio, Giovanni si era trasferito a Bologna a studiare lettere, allievo di G. Carducci, entrando in un periodo di sbandamento spirituale e d'irrequietezza. Amico di A. Costa, aderì ai primi movimenti socialisti e si legò agli ambienti dell'estremismo. Per aver partecipato, nel maggio 1876, a una manifestazione ostile nei confronti del ministro dell'Istruzione, R. Bonghi, perse la borsa di studio; dal 7 sett. al 22 dic. 1879 fu addirittura in carcere, accusato di attività sovversive. Ripresi nel1880 gli studi interrotti, P. si laureò nel 1882 con una tesi su Alceo; subito dopo fu nominato professore di lettere latine e greche nel liceo di Matera; nel 1884 fu trasferito con lo stesso incarico a Massa, dove chiamò presso di sé le sorelle Ida (n. 1863) e Maria (n. 1865); dal 1887al 1895 insegnò al liceo di Livorno. Dal 1895 al 1897, P. insegnò come professore straordinario grammatica greca e latina nell'università di Bologna; dal 1897 al 1903, come ordinario, letteratura latina a Messina; nel 1903 fu trasferito a Pisa, dove insegnò grammatica latina e greca sino al 1905, quando fu chiamato a succedere al Carducci sulla cattedra bolognese di letteratura italiana. Il prestigioso trasferimento, accettato come risarcimento tardivo, non rimase senza conseguenze per l'opera stessa del poeta. Più volentieri peraltro che alle relazioni intellettuali e all'insegnamento universitario, da lui sentito come un peso, P. applicava il suo ingegno allo studio e al lavoro poetico, a cui amava dedicarsi soprattutto in quella casa di Castelvecchio (oggi Castelvecchio P. nel comune di Barga) in Garfagnana, dove s'era sistemato nell'estate del 1895 e che soltanto nel 1902 aveva potuto acquistare. Qui si ritrovava con Maria, la sua Mariù (procurandogli un grande dolore, Ida s'era sposata il 30 settembre di quello stesso anno 1895, mentre egli aveva rinunciato ai propri propositi matrimoniali), appena glielo permettevano i doveri dell'insegnamento, e qui venne seppellito, pur essendo morto a Bologna. A Castelvecchio Maria restò sino alla sua morte (1953), gelosa custode delle memorie e delle carte del fratello (poi accessibili agli studiosi nell'archivio di casa P.), di cui lasciò un'importante biografia, Lungo la vita di G. Pascoli (post., 1961, con integrazioni di A. Vicinelli).
Quelli della ricomposta unità familiare sono anni di grande tenerezza e di malinconica rassegnazione; l'atmosfera in cui maturarono le poesie di Myricae (se si eccettuano Il maniero eRio Salto, che nella prima stesura risalgono al 1877, e Romagna, che risale al 1880). Del 1891 è la prima edizione di questo, che rimane il libro più tormentato di P., mentre nel 1892 il poemettoVeianus gli assicurava la medaglia d'oro nel concorso di poesia latina di Amsterdam (dove ne avrebbe ottenute negli anni successivi altre dodici. Contrariamente a quanto indurrebbe a supporre la cronologia delle sue pubblicazioni, la poesia pascoliana alternò sin dal primo momento temi minori e minimi a temi vasti e complessi; ma negli ampi cicli di ispirazione patriottica e nazionale che negli ultimi anni il poeta andava progettando, e in parte realizzò, influì certamente il fatto che egli si ritenne obbligato a raccogliere - contro la sua più genuina natura - l'eredità del Carducci, anche in quanto poeta della storia e della gloria nazionale (Le canzoni di re Enzio, pubbl. tra il 1908 e il 1909, e i Poemi italici, 1911, poi nel vol. post. Poemi italici e canzoni di re Enzio, 1914; gli ncompiuti Poemi del Risorgimento, pubbl. post. da Maria nel 1913 insieme con l'Inno a Roma e l'Inno a Torino, composti in latino e da P. stesso volti in italiano). È a questo improbabile vate che bisogna pensare, per capire come il socialismo umanitario a cui P. era approdato dopo il sovversivismo giovanile potesse svolgersi nella presa di posizione imperialista dell'orazione La grande proletaria si è mossa, pronunciata a Barga nel 1911, in occasione della guerra libica. Analogamente, avevano giocato un ruolo decisivo nella composizione dei Poemi conviviali (1904) l'invito a collaborare al Convito di A. De Bosis e le sollecitazioni di G. D'Annunzio. Dopo i tentativi giovanili (pubbl. da Maria nel vol. di Poesie varie, post., 1912, nuova ed. 1913), l'aspetto del poeta che per primo s'impone all'attenzione del lettore è indubbiamente quello di una grande sostenutezza formale incongruamente posta al servizio della riscoperta di cose «comuni» e «quotidiane». L'incongruità risulta stridente in rapporto alle esperienze eccezionali consegnate alla poesia nello stesso giro d'anni da D'Annunzio e, sia pure in maniera meno evidente, anche se riferita alla vena civile e alla magniloquenza di Carducci. Proprio in quanto «ultimo figlio di Virgilio», secondo una celebre definizione dello stesso D'Annunzio, P. si trova invece perfettamente a suo agio tra seminati e uccelli, tra opere e operai dei campi e dei villaggi, ma non per questo compie una ricerca meno audacemente sperimentale, anche in fatto di metrica, rendendo ulteriormente rigorosa la poesia barbara carducciana e, per tale sua maggiore fedeltà ai modelli classici, pervenendo a soluzioni molto più avanzate. Il suo è un polemico classicismo a oltranza, di cui il gusto antiquario deiPoemi conviviali (1904; nuova ed. 1905) e il latino dei Carmina (2 voll., post., 1914) costituiranno le prove più vistose. Ma lo stesso ambizioso ideale di emulazione, senza l'obbligo dei troppo diretti riferimenti tematici, vive già compiutamente nei versi della prima raccolta, nell'umile mondo delle «cose» della «campagna», dove «arbusta iuvant humilesque myricae», come recita il motto del libro, liberamente tratto dai versi iniziali della quarta egloga di Virgilio (Sicelides Musae, paulo maiora canamus. Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae «Muse di Sicilia, solleviamo il tono del canto. Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici»), che in vario modo il poeta avrebbe utilizzato anche a contrassegno delle successive raccolte. Gli «occhi velati ma attenti» del poeta modernamente non possono che cercare, tra lo stupore e lo sgomento, le ragioni d'una pena segreta, mentre al nitore classico vengono restituite anche le sensazioni più sfuggenti, in una poesia che, a prescindere dalla realtà sulla quale si sofferma, si rivela capace, come quella antica, di recuperare, se non il parlato, un più ampio spettro tematico e una maggiore naturalezza. E poco male se, coerentemente con le convinzioni espresse nella prosa Il fanciullino (pubbl. sul Marzocco, 1897), la naturalezza viene per un paradosso riconquistata con un metodico abbassamento o quasi una regressione alla espressività infantile, sempre all'insegna di un'illusione di aderenza assoluta alle cose. Questo nodo indissolubile di ricordi infantili e reminiscenze letterarie che si stringe intorno a una campagna reale, è anche l'orizzonte culturale e linguistico straordinariamente determinato all'interno del quale soltanto, coniugando il minimo di artificio con la massima precisione, la memoria può nutrire una sua mitologia elementare, compensando il bene perduto (l'«infanzia» e la «madre», riassunti nel «nido») con il tentativo di ricomporre questo nido nelle dimensioni della coscienza e nel sacrificio della vita al raccoglimento sentimentale e intellettuale. Artista essenzialmente analitico, come tutti i simbolisti, il simbolista involontario P. vede e ama soprattutto i particolari, che trascrive con superstizioso rispetto della precisione, immerso in un'auscultazione ansiosa della realtà, che tendenzialmente degrada il linguaggio a onomatopea o viceversa a una pura nomenclatura, quasi magicamente sostitutiva della materiale datità degli oggetti designati. Quando il poeta passa poi dal semplice al complesso, dal quadretto alla scena, dalla scena al ciclo che celebri con un più largo respiro le opere e i giorni dei suoi contadini romagnoli e toscani, insomma dalleMyricae (1a ed., di ventidue brevi componimenti, 1891; 6a ed. defin. 1903) ai Poemetti (1897;2a ed. accr. 1900; poi sdoppiatisi in Primi poemetti, 1904, e Nuovi poemetti, 1909), ai Canti di Castelvecchio (1903; 6a ed. defin. 1912), sempre identico appare il suo atteggiamento, come di chi analizza e scompone e disperde anche quando vuol costruire. Per apprezzare appieno la diversità delle strategie compositive seguite dal poeta, si deve allora avere l'accortezza di seguire più da vicino la tessitura pascoliana, che rimpiazza l'organizzazione sintattica del discorso con un andamento ellittico in cui regnano le analogie, attingendo esiti diversi, a secondo che predominino le soluzioni per le quali opportunamente si è parlato di impressionismo, o quelle, non solo narrative, di maggior impegno (per esempio, il recupero con intenti innovativi della terzina dantesca). In P. si riconosce spesso il punto di partenza del linguaggio poetico del Novecento, oltre che per la forte suggestione di una poesia pura ante litteram, svincolata dai temi convenzionali e problematicamente rapportata alla tradizione, anche per l'autorevole esempio da lui fornito di un'alternativa al monolinguismo lirico di ascendenza petrarchesca. Formatosi in una cultura dominata dal pensiero positivista, P. esprime nuove esigenze spirituali, sulla linea di tanti altri poeti e narratori italiani tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento. L'estrema piccolezza e labilità dell'uomo e dello stesso mondo è un dato della ragione; compito della poesia, egli dice, è farlo diventare un dato di sentimento; far diventare «coscienza» quello che è semplicemente «scienza». Ma per conto suo P. non compone il dissidio: la sua poesia «cosmica» nasce appunto dall'urto tra scienza e coscienza, tra l'uomo che sa di dover morire, e che tutto con lui morrà, e il fanciullino che non vuole rassegnarsi, che «non sa» morire. Il tema della morte, in cui confluisce quello della tragedia familiare (si pensi ad alcune delle più note poesie come Il giorno dei morti, X agosto, La cavalla storna), acquista in P. con gli anni un'importanza determinante. La morte è il «mistero» di fronte al quale non si può che arretrare impauriti, che provare sgomento come il bimbo del buio e cingere il proprio mondo di una siepe, concentrando lo sguardo e l'anima sulle cose concrete che ci sono d'intorno e dalle quali si può trarre una consolazione simile a quella d'una poesia inavvertita dai più. Tutto questo travaglio spirituale è naturalmente alle radici anche di quella parte dell'opera pascoliana che potrebbe sembrare più lontana dalla sua vita privata; cioè dei carmi in latino con la loro istituzionale ufficialità. In realtà, come nelle traduzioni tecnicamente perfette dai classici (raccolte da Maria nel vol. di Traduzioni e riduzioni, post., 1913, insieme con altre pregevolissime da poeti stranieri moderni), così nelle opere originali d'argomento classico, in latino e in volgare, P., oltre a spingere alle estreme conseguenze il suo sperimentalismo, mette alla prova la sua profonda identificazione sia sentimentale sia culturale con i poeti del mondo antico. Le poesie latine, iCarmina, a prescindere da un gruppo di epigrammi e di componimenti in metri lirici, constano essenzialmente di poemetti d'argomento romano, ispirati sia alle vicende politiche (Res romanae) sia alla storia letteraria di Roma (Liber de poetis), e d'argomento cristiano (Poemata christiana): questi ultimi, che costituiscono un gruppo a sé e rappresentano, in modo approssimativo dal punto cronologico, ma rigorosamente dal punto di vista spirituale, un'evoluzione del gusto poetico del P. latino, contengono alcune delle pagine più belle di tutta la produzione pascoliana. Ed è stato bene osservato che anche i Poemi conviviali - prendano essi lo spunto da Omero o da Platone, da Esiodo o da Apuleio o da Plinio - sono nella loro essenza, a prescindere dalla ricchissima e squisita decorazione a mosaico, la ricostruzione di una paganità pervasa dagli oscuri presagi della futura morale cristiana. Del resto la tendenza alla gnomica morale e politica, tendenza che trova la sua più precisa espressione nel volume di Odi e inni (1906; 3a ed. defin., post., 1913), è ben visibile in P. sin dalle Myricae, anche se con gli anni si accentua, giacché, in curioso contrasto con la poesia simbolista e con la stessa sua poetica, egli assegnò costantemente alla poesia una funzione ammaestratrice. Il poeta «fanciullino» che è sempre pronto a stupire di tutto, a scoprire il grande nel piccolo e il piccolo nel grande e nelle cose le «somiglianze e relazioni più ingegnose»; che non ha altro fine e altro bisogno se non quello di esprimere ingenuamente il suo candido stupore; questo romantico «fanciullo» è, e vuole essere, anche «predicatore». Ed è importante osservare come l'opposizione tra questi due termini, cioè tra la poesia-poesia e la poesia variamente moralistica, è del P. prima ancora che del Croce. ː P. teneva moltissimo ai suoi scritti di critica dantesca (Minerva oscura, 1898; Sotto il velame, 1900;La mirabile visione, 1902; Conferenze e studi danteschi, post., 1915), nei quali, riprendendo una tendenza esegetica che aveva avuto a campione G. Rossetti, approfondì gli studi sulla simbologia della Commedia. Nel poema, che sarebbe stato composto interamente a Ravenna dopo la morte di Arrigo VII, P. vide rappresentata la mistica morte in Cristo, mediante la quale si risorge alla vera vita. Dalla selva oscura del peccato originale l'umanità riguadagna la divina foresta del paradiso terrestre, riconquista cioè l'innocenza anteriore al peccato. Difficile riconquista perché l'Impero non svolge più la sua funzione e la fede non può condurre a salvezza se non è integrata dalla giustizia terrena. L'interpretazione mistica, non esente da pericolose sottigliezze, fu freddamente accolta; di che P. si accorava. Ma il meglio della sua opera di critico è nelle finissime osservazioni sparse nelle due antologie latine (Lyra, 1895; Epos,1897) e nelle due italiane (Sul limitare, 1899; Fior da fiore, 1901), specialmente a commento dei poeti o dei momenti di poesia a lui più vicini. Si vedano infine le raccolte di prose: Miei pensieri di varia umanità (1903, in gran parte ristampata in Pensieri e discorsi, 1907); Patria e umanità (post.,1914); Antico sempre nuovo. Scritti vari di argomento latino (post., 1925). ː Tutte le opere di P. sono state pubblicate in quattro volumi: Poesie, con un avvertimento di A. Baldini (1939);Carmina, a cura di M. Valgimigli (1951); Prose, a cura di A. Vicinelli: I. Pensieri di varia umanità(1946); II. Scritti danteschi (2 tomi, 1952). Di Myricae esiste un'ed. critica, procurata da G. Nava (2 voll., 1974). Postuma è stata pubblicata la tesi di laurea di P., Alceo (1986). 



Saba Umberto



Saba, Umberto. - Pseudonimo del poeta Umberto Poli (Trieste1883 - Gorizia 1957); di famiglia ebraica dal lato materno, fu avviato agli studi commerciali, e fu per lunghi anni direttore e proprietario di una libreria antiquaria a Trieste. I suoi primi versi risalgono al 1900 ma il primo libro, Poesie, è del 1911; seguirono: Coi miei occhi (1912), Cose leggere e vaganti(1920), Il Canzoniere (1921; ed. crit. a cura di G. Castellani,1981), Preludio e canzonette (1922), Figure e canti (1926),Preludio e fughe (1928), Tre composizioni (1933), Parole(1934), Ultime cose (1944), poi tutti raccolti nell'ediz. definitiva del Canzoniere (1945); e quindi Mediterranee(1947), Uccelli - Quasi un racconto (1951). Scrisse anche alcune prose fra narrative e liriche: Scorciatoie e raccontini(1946), Ricordi-racconti (1956) e Storia e cronistoria del Canzoniere (1948), contributo alla critica di sé stesso; postumo (1975; nuova ed. 1995) è stato pubblicato un romanzo incompiuto, Ernesto, scritto nel 1953. Alla contemplazione delle cose ultime, pervasa da un pessimismo, da un senso atavico e quasi espiatorio del dolore, si congiungono, in S., una trepida inclinazione per la donna e per l'amore, un alacre interesse per le cose e le creature più umili, per gli aspetti più minuti della vita e della sua Trieste. E la sua poesia, autobiografica proprio nel senso di intimo diario e confessione, è di un tono medio, fra il cantato e il parlato, fra l'aulico e il popolaresco, fra l'alta lirica (dai vaghi echi leopardiani) e la canzonetta: conforme al suo gusto, educato sui classici (i quali, per lui, nato in una terra all'incrocio di più culture e non ancora unita all'Italia, costituirono anche l'unico riferimento sicuro in fatto di lingua) ma arricchito dai lieviti del romanticismo germanico e slavo, scaltrito dalla lezione della poesia dialettale veneta (e di quella realistico-borghese di V. Betteloni), e insieme sensibile alle suggestioni della psicanalisi. E se la conciliazione di queste varie componenti, e dei diversi modi, non avviene senza dissonanze, e la tendenza di S. a tradurre quella confessione o introversione in "racconto" dà luogo a frequenti cadenze prosastiche (temperate peraltro, nelle ultime poesie, da una certa concisione epigrammatica), è anche vero che, per la profonda umanità del suo impegno e per la schiettezza della vena lirica, la sua opera si colloca tra le maggiori della poesia contemporanea. Dell'importante epistolario di S., oltre al carteggio con P. A. Quarantotti Gambini (Il vecchio e il giovane, 1965) e a singoli gruppi di lettere pubblicati sparsamente, si può leggere l'ed. a cura di A. Marcovecchio, La spada d'amore. Lettere scelte1902-1957 (1983).





Ungaretti Giuseppe




Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria D’Egitto nel 1888, da genitori toscani. Dopo gli studi liceali si trasferisce a Parigi, dove frequenta l’Università e conosce esponenti della cultura francese. 
Allo scoppio della 1a Guerra Mondiale, torna in Italia e si arruola come soldato. La vita di trincea è un’esperienza decisiva per il poeta che scopre in quei mesi la propria vocazione di scrittore. Negli anni successivi, lavora come addetto culturale all’ambasciata italiana a Parigi. 
Nel 1931 accetta la cattedra di letteratura italiana all’Università di San Paolo in Brasile. Lì nel 1939 una tragedia sconvolge la sua esistenza: la morte del figlio Antonietto, di nove anni, in seguito ad un incidente. 
Tornato in Italia, insegna letteratura italiana all’Università di Roma, continuando la sua attività di poeta e uomo di cultura. Muore a Roma nel 1970. La poesia di Giuseppe Ungaretti è considerata “ermetica”, vale a dire chiusa e indecifrabile, la quale non ha bisogno di tante parole e le uniche espresse sono essenziali ed incisive. Viene considerata anche “pura”, cioè che scriveva per se stesso e non voleva trasmettere alcun messaggio al lettore. Le liriche, inoltre, sono brevi perché non hanno finalità poetiche. 

●Vita di un uomo 
Quando Ungaretti comincia a raccogliere e a dare un ordine alla sua produzione poetica sceglie il titolo “Vita di un uomo”. 
Nella costruzione di quest’opera si possono distinguere tre fasi. Una prima fase è caratterizzata da componimenti brevi, in cui il poeta si impegna moltissimo nella ricerca di parole che diano il massimo. 
Dopo la guerra, ha inizio la seconda fase, caratterizzata da poesie che hanno come tema la riflessione sul tempo e sulla morte. 
La terza fase inizia con le poesie di straziante tenerezza scritte in morte del figlio Antonietto. Le considerazioni sulla vita individuale e sulla vita degli uomini in generale sono costituite da una malinconica ironia. 

●Fratelli 
La poesia Fratelli, è stata scritta durante i combattimenti sul Carso e ci cala nell’angoscia della guerra, dove non ci sono distinzioni, né vincitori né vinti, ma si trovano tutti nella stessa situazione. 

●Veglia 
Ungaretti, poeta soldato, ha vissuto direttamente in trincea l’esperienza sofferente e straziante della guerra, descrivendo come di fronte ad una tragedia scatti in lui la necessità di dimostrare l’amore per la vita. 

●San Martino del Carso 
In questa lirica racconta le condizioni al termine della guerra di San Martino del Carso, un paese ormai distrutto; rivelando che anche se ci sono dei vincitori le conseguenze e i danni si fanno sentire lo stesso includendo la perdita di numerosi suoi familiari ed amici morti a causa della guerra.




Verga Giovanni

Vérga, Giovanni. - Scrittore (Catania 1840 - ivi 1922). Autore di novelle e romanzi, il cui stile e linguaggio hanno rinnovato profondamente la narrativa italiana, V. è considerato il più autorevole esponente del verismo. Raggiunse la notorietà con alcuni romanzi, Eva e Tigre reale(1873) e novelle (Nedda, 1874), nei quali espresse la sua predilezione per temi legati a diversi ambienti sociali e per il gusto per una scrittura asciutta e comunicativa. Tra il 1878 e il 1881 elaborò un progetto innovatore rispetto alle esperienze precedenti, quello di trasferire nei romanzi l'attenta osservazione del mondo circostante, ponendo l'accento sui desideri degli uomini e sul loro modo di parlare. Ne I Malavoglia (1881) V. perfezionò una tecnica narrativa caratterizzata dall'uso del discorso indiretto libero, che permette di inserire nel racconto le voci e i punti di vista dei personaggi, le loro parole semplici e la loro grammatica elementare. In Mastro don Gesualdo (1889) rispetto allo stile corale de I Malavoglia, V. raffigurò con distacco luoghi e paesaggi lividi e desolati, specchio della miseria umana che i personaggi del romanzo rappresentano.


VITA E OPERE



Di famiglia borghese ma che vantava antiche tradizioni nobiliari, fu allievo di un poeta di gusto romantico, A. Abate, e ne subì l'influsso nei suoi primi romanzi: Amore e patria (1857), rimasto inedito, e I Carbonari della montagna (4 voll., 1861-62), racconto storico sul periodo murattiano; ma già tra il 1862 e il 1863 pubblicava nel giornale fiorentino La nuova Europa un romanzo d'argomento contemporaneo: Sulle lagune. Si era iscritto (1858) alla facoltà di giurisprudenza di Catania, ma non proseguì gli studi. Dal 1860 al 1864 fece parte della guardia nazionale. Dopo un primo viaggio a Firenze (1865), nel 1866, con Una peccatrice, cominciò la serie dei romanzi passionali, che comprende Storia di una capinera (1871), Eva, Tigre reale, Eros (1875): la prima maniera di V., languidamente sentimentale nella Storia di una capinera, enfaticamente romantica negli altri racconti. Del 1876 è la prima raccolta di novelle (Primavera e altri racconti). Lo scrittore si era intanto stabilito a Firenze (1869-71), poi (1872) a Milano, dove prevalentemente visse fino al 1893. Nel 1869 aveva conosciuto a Firenze Giselda Foianesi che poco dopo (1872) sposò M. Rapisardi, ma ebbe in seguito un'intensa relazione con Verga. Il lungo soggiorno milanese diede a V. una maggiore esperienza dei problemi artistici e della vita italiana: il tardo romanticismo, la Scapigliatura, la crisi della società risorgimentale, le suggestioni degli ambienti mondani. Di qui il fondo letterario della sua prima maniera, e quell'infatuazione cupa e passionale che è insieme reminiscenza libresca e irrisolto residuo autobiografico. Preannunci del V. maggiore, poeta della realtà aspra che si deve affrontare con forza e con buon senso, sono nell'Erminia di Tigre reale, e soprattutto nella protagonista di Eva. Ma il deciso inizio della seconda maniera, se si esclude la novella Nedda, che ha sì per protagonista una povera contadina siciliana ma ha anche, per lo più, l'intonazione di una "pietosa istoria" raccontata da un borghese di buon cuore, è segnato dalle novelle di Vita dei campi (1880): un verismo asciutto, rapido, animato da sentimenti autentici e da vivo amore per il paese natio, eppure talvolta irrigidito da un presupposto sistematico in specie nell'eccessiva carica dialettale dello stile; ma sono qui alcune delle pagine più valide di V.: Fantasticheria e L'amante di Gramigna. Il motivo essenziale di Vita dei campi è la rappresentazione d'una umanità primitiva e istintiva: troppo ischeletrita in Cavalleria rusticana, e talora abbassata a osservazione caratteristica e folcloristica; meglio riuscita ne La Lupa, anche meglio in Ieli il pastore e soprattutto in Rosso Malpelo, che dà un'impressione lirica fondamentale di "leggenda popolare". Qualche volta le pagine di queste novelle, come poi quelle culminanti dei due maggiori romanzi, si alzano a un canto desolato, che è come l'interpretazione lirica che V. fa del pathos dei derelitti, ed è la sublimazione lirica del verismo. Con I Malavoglia  V. dà inizio a un ciclo narrativo, I vinti (inizialm. intitolato La marea), articolato in cinque romanzi: oltre I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L'onorevole Scipioni, L'uomo di lusso, e dunque la storia di cinque sfortunate ambizioni, da quelle della povera gente in cerca dei mezzi materiali per sostenersi a quelle del raffinato aristocratico (ma nella composizione del ciclo V. non andò oltre il primo capitolo del terzo romanzo, che fu pubbl. post. da F. De Roberto, 1922). I Malavoglia ritraggono la storia d'una poverissima famiglia di pescatori siciliani e la triste sorte di quello d'essi che ha tentato di sottrarsi all'umile e faticoso lavoro: il giovane 'Ntoni. La forza poetica del romanzo sta nell'amara rassegnazione dei "vinti" dinanzi all'accanirsi del destino. La rassegnazione è dolorosissima ma nei cuori oppressi dall'angoscia splende il senso di una legge primitiva e insopprimibile: l'attaccamento alla famiglia e all'onestà tradizionale. I Malavoglia sono un poema più che un romanzo; in esso il linguaggio di V. rifugge dalla ben architettata composizione romanzesca, e trova la via della poesia in un ricco fluire d'immagini, di dialoghi spezzati e scabri, di toni di colore ora un po' stanchi, ora fortemente messi a contrasto. Subito dopo I Malavoglia V. pubblicò (1882) Il marito di Elena, che nasce dalla stessa filosofia della vita de I Malavoglia, ma preannuncia alcune psicologie femminili e la vena pittoresca del Mastro don Gesualdo; poi leNovelle rusticane (1883; ed. defin. 1920), dove, in racconti non di rado un po' secchi o slegati, si continuano o si preannunciano motivi dei due romanzi maggiori; quindi Per le vie (1883), novelle dov'è ritratta, con la solita asciuttezza di tono e rapidità di ritmo, la vita dei bassifondi milanesi e nelle quali, come in una raccolta posteriore, Don Candeloro e C.i (1894), V. abbandona il regionalismo nativo per rientrare negli ambienti caratteristici del realismo straniero, rappresentando con ironica amarezza bozzetti di vita teatrale o piccolo-borghese. Stanno di mezzo fra quel regionalismo e questo realismo le novelle di Vagabondaggio (1887), mentre su un registro di più ironica rappresentazione si collocano I ricordi del capitano d'Arce (1891). Ma certo l'opera di maggiore impegno di quegli anni, come testimonia la sua lunga elaborazione (tre stesure: 1884, 1888, 1889), è il romanzo Mastro don Gesualdo, ove il verismo appare più felicemente risolto nell'indagine di un ambiente paesano da parte di un artista che vivamente vi partecipa e quasi s'immedesima coi personaggi maggiori e minori. Protagonista è un muratore siciliano, Gesualdo Motta, arricchito in mezzo ad avversità d'ogni sorta, circondato dalla malignità e dall'invidia dei rivali e dei beneficati, amareggiato anche dalla lontananza spirituale della moglie (Bianca Trao, di nascita troppo superiore alla sua) e infine dall'indifferenza della figlia. Sconfitto, egli muore dopo lunghe sofferenze, quasi abbandonato, nel palazzo dove la figlia e il genero scialacquano le ricchezze che egli ha guadagnato. Negli anni che corrono fra il1881 e il 1889 V. ha conquistato una tecnica più potente, un fare più complesso, più sensibile, che si manifesta nella preparazione discreta e pietosa di alcuni episodi, nella costruzione dei capitoli. Di particolare vivezza anche il paesaggio, ove il protagonista porta tutta la sua sofferta inquietudine: paesaggio dei campi e della cittadina siciliana, popolata da tipi umani diversissimi. Il linguaggio è diventato a volte più sfumato, a volte più efficace ed energico che nei Malavoglia, ma a questa maggiore ricchezza di attitudini è venuta meno l'armonia che teneva insieme I Malavoglia, libro meno ricco ma più coerente. A completare l'esperienza letteraria di V. venne a inserirsi a un certo momento nell'attività narrativa una interessante produzione teatrale (sovente ispirata, nell'argomento, a trame di racconti dello stesso autore), che introducendo sulle scene un linguaggio scarno ed essenziale contribuì a combattere i residui sentimentali del teatro borghese del tempo: Cavalleria rusticana (1884); In portineria (1885); La Lupa (1896); La caccia al lupo (1902); La caccia alla volpe (1902); Dal tuo al mio (1903); Rose caduche (composta tra il1873 e il 1875; pubbl. post., 1928). Anche nel teatro l'ispirazione più alta si attua nel vigoroso racconto di una dolente umanità, specialmente nell'opera più valida, Dal tuo al mio, che ha il suo centro poetico unitario nell'amara rappresentazione del crollo di tutto un passato dinanzi alle leggi brutali della vita moderna (dal dramma V. trarrà nel 1906 il romanzo omonimo). Tornato a Catania, V. visse in uno scontroso riserbo, dedicandosi, negli ultimi anni, all'amministrazione dei suoi beni; solo nel 1919 fu riconosciuto dalla più autorevole critica (L. Russo) il valore della sua opera. Due anni prima della morte gli giunse la nomina a senatore. Del suo abbondante epistolario, oltre alle Lettere al suo traduttore (a cura di F. Chiappelli, 1980), indirizzate a É. Rod (v.), andrà almeno ricordato il Carteggio con L. Capuana (a cura di G. Raya, 1984). Diverse le edd. complessive delle Opere e numerosi i commenti a opere singole; fondamentale l'ed. crit. delMastro-don Gesualdo (a cura di C. Riccardi, 1979). Postuma (1980) è stata pubblicata la commedia giovanile I nuovi tartufi. Dal 1987 ha preso avvio la pubblicazione dell'edizione nazionale delle opere di V., prevista in 22 volumi.